La residenza anagrafica salva la vecchia disciplina del regime degli impatriati

5 Dicembre 2023

La novità più significativa apportata all’articolo 5 della versione del decreto legislativo[1] recante la riforma della fiscalità internazionale ad oggi sottoposto a parere parlamentare riguarda la previsione del “trasferimento della residenza anagrafica in Italia entro il 31 dicembre 2023” quale criterio per estendere l’applicazione del “vecchio regime” ai lavoratori che acquisiranno la residenza fiscale nel territorio dello Stato solo dal 1° gennaio 2024.

La ratio sottostante a tale modifica è quella di tutelare il legittimo affidamento di coloro che, sulla base di quanto disposto dalla normativa attualmente in vigore, si siano trasferiti in Italia solo nella seconda metà del 2023, con la prospettiva di acquisire la residenza fiscale a partire dall’anno 2024.

Infatti, nella versione licenziata dal Consiglio dei ministri del decreto in commento, il criterio per distinguere tra l’applicazione del nuovo o del vecchio regime degli impatriati era quello della residenza fiscale.

Cosicché, i contribuenti che si fossero trasferiti nella seconda metà del 2023, non potendo maturare il requisito della residenza fiscale – in quanto l’art. 2, co. 2 del TUIR presuppone che affinché una persona fisica sia considerata fiscalmente residente nel territorio dello Stato debba risultare iscritta all’anagrafe della popolazione residente, ovvero ivi abbia il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile per la maggior parte del periodo d’imposta – avrebbero solo potuto accedere, al ricorrere dei requisiti previsti dalla norma, alla nuova disciplina in vigore dal 1° gennaio 2024. 

Di conseguenza, coloro che hanno deciso di trasferire la loro residenza fiscale in Italia a decorrere dal 2024, avendo trascorso all’estero solo due periodi d’imposta (2022-2023) sarebbero restati tagliati fuori sia dall’applicazione del vecchio che del nuovo regime:

  • del vecchio, in quanto secondo la prima formulazione del decreto in commento, lo stesso non avrebbe più potuto trovare applicazione dal 1° gennaio 2024;
  • del nuovo, in quanto non avrebbero soddisfatto il requisito della permanenza all’estero per almeno tre periodi d’imposta precedenti al trasferimento in Italia.

Da qui la necessità di introdurre un correttivo volto a tutelare i lavoratori che, facendo affidamento sugli incentivi fiscali vigenti alla data in cui avevano deciso di trasferirsi in Italia, avevano siglato contratti con aziende site nel territorio dello Stato.

Con la modifica riguardante l’estensione del vecchio regime anche a coloro che abbiano “trasferito la loro residenza anagrafica in Italia entro il 31 dicembre 2023” si potranno configurare due ipotesi:

  1. trasferimento della residenza fiscale in Italia dal 1° gennaio 2024: in questo caso, al ricorrere degli altri requisiti previsti dalla norma, i contribuenti potranno beneficiare del nuovo regime degli impatriati;
  2. trasferimento della residenza anagrafica in Italia entro il 31 dicembre 2023: in questo caso, ove il contribuente sia stato residente all’estero nel biennio precedente, potrà trovare applicazione la vecchia disciplina degli impatriati.

La novazione normativa prevede, quindi, che possano continuare a beneficiare del vecchio regime degli impatriati i soggetti che hanno trasferito la loro residenza anagrafica in Italia entro il 31 dicembre 2023, ossia coloro che risultino iscritti all’Anagrafe della popolazione residente entro tale data.

Così facendo, il legislatore ha ammesso al vecchio regime anche una larga fetta di contribuenti che altrimenti ne sarebbe rimasta tagliata fuori, oltre a tutelare il legittimo affidamento degli stessi.

Si faccia un esempio per rendere più chiara la portata della modifica in esame: si immagini un soggetto che ha vissuto in Germania per i periodi d’imposta 2022 e 2023 (ivi disponendo della residenza fiscale) e abbia firmato nel mese di ottobre 2023 un contratto con una società italiana; questi, laddove trasferisca la sua residenza anagrafica in Italia entro il 31 dicembre 2023, potrà beneficiare del vecchio regime degli impatriati.

Al contrario, se non fosse stato introdotto il criterio della residenza anagrafica, tale soggetto non avrebbe potuto accedere né al vecchio regime, né al nuovo regime, per i motivi sopra illustrati.

La vecchia disciplina continuerà a trovare applicazione anche agli sportivi, nel caso di contratti di lavoro stipulati entro il 31 dicembre 2023.

Appare evidente come, mettendo a confronto le peculiarità dei due regimi, la modifica introdotta non sia di poco conto, e come la nuova versione – anche e (forse) soprattutto al fine di evitare il proliferare di comportamenti “abusivi” e fraudolenti –, risulti essere molto più severa di quella attualmente vigente.

A tal proposito, si ricorda che la nuova disciplina non solo prolunga il periodo di residenza all’estero pregresso al trasferimento (da 2 a 3 anni), oltreché quello di permanenza in Italia (da 2 a 5 anni), ma prevede inoltre che il soggetto che intenda rientrare in Italia, per poter accedere al nuovo regime degli impatriati, debba instaurare un nuovo rapporto di lavoro con un soggetto diverso da quello presso il quale era impiegato all’estero prima del trasferimento, nonché da quelli appartenenti al suo stesso gruppo.

Anche quest’ultimo limite ha suscitato diverse perplessità, e, forse, avrebbe meritato di venire anch’esso “ammorbidito” dal legislatore. Infatti, nonostante lo stesso sia finalizzato a evitare usi strumentali del regime in esame – ad esempio da parte di aziende che trasferiscono i loro dipendenti all’estero, magari presso società appartenenti allo stesso gruppo, al solo fine di permetterne, dopo il richiesto periodo di permanenza fuori dal territorio dello Stato, il rientro agevolato in Italia –, appare tuttavia stridente con l’attuale contesto socioeconomico.

È infatti ormai piuttosto comune che gruppi internazionali siano caratterizzati da elevata mobilità nello scenario internazionale, e che incentivino i propri dipendenti ad essere sempre più dinamici negli spostamenti. Il tutto legato ad esigenze di crescita, possibile anche tramite la messa a disposizione delle competenze maturate nelle esperienze fatte nei vari Paesi, più che da finalità fraudolente.

Appare anacronistica anche la richiesta che l’attività lavorativa sia prestata per la maggior parte del periodo d’imposta nel territorio dello Stato, previsione che appare in controtendenza, andando a disincentivare il fenomeno dello smart working.

Se è chiara da un lato l’esigenza del legislatore di evitare strumentalizzazioni della norma, dall’altro lato è evidente come la “rigidità” del nuovo testo possa costituire un ostacolo alla mobilità dei lavoratori (soprattutto di quelli altamente specializzati).

Forse, invece che prevedere una sorta di presunzione assoluta di mala fede, il legislatore avrebbe potuto assecondare di più la realtà lavorativa attuale, prevedendo strumenti di dialogo tra contribuente e fisco – si pensi alla possibilità di accedere all’istituto dell’interpello disapplicativo – con il quale si sarebbe potuto rendere il regime più attrattivo, garantendo allo stesso tempo un controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria.


[1] Il testo attualmente all’esame parlamentare modifica la versione approvata, in via preliminare, dal Consiglio dei Ministri il 16 ottobre 2023.

RDP e CV

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